lunedì 18 maggio 2009

dialogo con Eraldo Baldini.


• Partiamo da Mal’aria. Da poco Rai Uno ha mandato in onda lo sceneggiato tratto da quel libro del 1998 vincitore del Premio Fregene: dando per scontato che sia un romanzo a cui tieni molto - essendo quello che in qualche maniera ti ha portato alla ribalta come autore - sei soddisfatto della trasposizione televisiva? E inoltre, poiché nel passaggio da un media all’altro un certo grado di «tradimento» è inevitabile, ti sembra che il lavoro svolto dalla regia abbia contenuto entro un limite accettabile questo lavoro?
• La fiction è abbastanza diversa dal romanzo, ma questo era scontato: si tratta di un libro estremamente duro e drammatico che, così com’è, difficilmente avrebbe potuto essere trasposto in tivù su Rai Uno e in prima serata. Al di là di ciò, io trovo che il film non sia male, soprattutto se confrontato con ciò che normalmente passa a quell’ora il piccolo schermo; sceneggiatori, regista e attori hanno svolto un lavoro più che dignitoso. Bisogna mettersi nell’ordine di idee che si tratta di un’altra cosa rispetto al romanzo: raccontata in modo diverso, per un mezzo diverso e forse anche per un pubblico diverso. Un pubblico enorme rispetto a quello dei lettori: Mal’aria in tivù ha avuto 6 milioni e mezzo di spettatori, una cifra davvero straordinaria, che ha portato il mio lavoro, per quanto rivisitato, a una visibilità che le vendite in libreria non mi avrebbero potuto dare in tutta una vita.
• Televisione, appunto. Avendoci avuto a che fare, hai un’opinione sulla discussa piattezza delle nostre produzioni rispetto, ad esempio, a quelle sperimentali e innovative provenienti dall’America? Che serial come Lost, 24, E.R. et similia da un decennio a questa parte abbiano rivoltato come un guanto il modo di approcciare al racconto sul piccolo schermo è un dato di fatto: perché noi non riusciamo ad essere altrettanto innovativi? Possibile che sia solo una questione di budget?
• Be’, il budget non è un problema secondario, ma forse non è neppure il principale. Gli americani fanno tivù da molto più tempo di noi e hanno una tradizione diversa e migliore non solo di quella italiana, ma in genere di tutta quella europea. Nel nostro Paese, poi, si evidenziano problemi maggiori e diversi: una tivù pubblica poco incline alla meritocrazia e condizionata da beghe politiche, poco coraggiosa e povera di idee e di stimoli; una tivù privata che mira principalmente al profitto e che non fa certo della qualità un proprio obiettivo; un confronto fra i due grandi poli televisivi che si svolge “al ribasso”, in una forsennata rincorsa ad accaparrarsi il pubblico meno esigente. Insomma, non è una situazione rosea, ma speriamo che qualcosa si muova.
• La letteratura «di genere» è oggi in Italia, con gran ritardo rispetto ai paesi anglosassoni, definitivamente sdoganata. Tu hai sempre sostenuto di non porre limiti al tuo lavoro e che le etichette finiscono per metterle gli altri, eppure, obiettivamente, dai tempi di Gotico rurale in poi non si può negare che la tua produzione (un mix di horror e noir, con numerose articolazioni non necessariamente definibili) s’incastoni in un filone, in una tendenza che probabilmente tu stesso hai aiutato a codificare nel nostro Paese. Cosa pensa oggi un pioniere del «genere» della diffusa moda del noir?
• Il giallo e il noir in Italia negli ultimi 20 anni hanno rivitalizzato la nostra editoria, assicurato un buon numero di lettori e di acquirenti di libri e portato linfa anche a cinema e tivù. Dunque un movimento molto positivo, in grado anche di ovviare a certe assenze, come quella del romanzo d’avventura, di certo romanzo sociale, eccetera. Al di là di questi meriti, però, va segnalato un rischio: oggi ci sono troppi gialli e noir, e pare che le nuove leve di scrittori non possano esimersi dal percorrere i sentieri del «genere». Insomma, una specie di «crisi di crescita» che prima o poi presenterà il conto, temo. Credo comunque che una generazione di scrittori che si formata e affinata nella «palestra» del noir sia oggi pronta a dare anche altro e di più, e i segni di questo passo in avanti forse si stanno già manifestando.
• Sin dai tuoi esordi apparve chiaro quanto il territorio in cui hai sempre vissuto (il Ravennate) e i legami arcaici con il mondo rurale di quelle zone fossero una componente importante della tua vena creativa, al punto che in molti si misero a parlare di te come di uno «Stephen King padano». Credi ancora che quel legame nutra parecchia della linfa vitale dei tuoi scritti, o col tempo hai imparato a guardare con maggiore distacco alle tue radici?
• Le mie radici sono molteplici: quella territoriale è una delle più importanti ma non l’unica, perché accanto ad essa ne va messa una di tipo culturale che non ha confini. Per capirci: il mio immaginario, come quello di Stephen King o di chiunque altro nel mondo occidentale sia nato una cinquantina d’anni fa, si è formato sì con le suggestioni locali, ma anche con quelle insite nei film , nei libri, nei telefilm, nei fumetti, nella musica e nell’arte di quell’arco temporale. Detto ciò, il mio mondo «padano» non ha cessato e non cesserà mai, credo, di darmi emozioni ed idee, oltre che un carattere, e la stessa cosa in un modo o nell’altro può essere estesa alla gran parte degli scrittori. Pensa solo a come il giallo italiano sia fortemente legato ai vari territori di nascita degli autori, e di come ciò non sia un limite, ma un modo di raccontare tutto il nostro Paese e le sue multiformi caratteristiche.
• Assieme a Marzaduri, Fois, Rigosi, Lucarelli e pochi altri hai fuori di dubbio contribuito parecchio alla causa del «genere» italiano. Oggi ti capita di sfogliare opere delle nuove leve? Detto in soldoni: il panorama italiano ti sembra degno d’interesse? E se sì, hai qualche nome in particolare, qualche romanzo (anche non necessariamente appartenente a un filone predefinito) che ultimamente abbia suscitato il tuo plauso?
• Ho qualche difficoltà a rispondere per due motivi. Il primo è che una buona parte degli autori italiani li conosco personalmente, e alcuni sono miei cari amici, per cui non sono in grado di esprimere un giudizio distaccato. Il secondo è che negli ultimi anni leggo molta saggistica e poca narrativa. Insomma, mi trovi un po’ impreparato sull’argomento...
• A che stai lavorando adesso?
• Sto mettendo mano al nuovo romanzo. Il genere e la cifra narrativa saranno più o meno i soliti, ma l’ambientazione stavolta non sarà per niente padana: la vicenda si svolgerà nelle selve germaniche di duemila anni fa. Di più non dico, per scaramanzia.
• Ultima domanda che è una consuetudine per tutti gli intervistati di Coolclub.it: che musica ascolti quando scrivi? (e se non ne ascolti, quale musica nutre il tuo immaginario?)
• Scrivo in perfetto silenzio. Quando ascolto musica, si tratta di solito di buon vecchio blues.
(intervista realizzata per il mensile coolclub.it)

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