sabato 22 marzo 2008

Quando McCarthy incontra Non aprite quella porta!

Scompaginato da un frastornante montaggio ad altissimo voltaggio visivo, La casa dei 1000 corpi - il precedente film di Rob Zombie (rocker, regista e ultimamente anche fumettista) - era un film all’insegna dello shock e della contaminazione estetica. Se da una parte questo trattamento stilistico era portato avanti con lucidità lungo tutto il film (cosa che non poteva che colpire positivamente), dall'altra finiva per inibire l'essenziale gioco delle identificazioni, precludendo allo spettatore la possibilità di partecipare emotivamente alle vicende rappresentate sullo schermo. Ne derivava una pellicola di grande impatto estetico, ma vagamente epidermica: più che testimoniare una rinuncia alle dinamiche psicologiche convenzionali, la mancata partecipazione emotiva suonava come un altolà all'ingresso nel film. Con La casa del diavolo (codardo quanto arbitrario titolo italiano che «ripulisce» The Devil’s Rejects, «i rifiuti del diavolo»), Rob Zombie mostra di aver imparato la lezione e costruisce un film interamente basato sulla gestione delle identificazioni. Se in un primo momento simpatizziamo infatti con la famiglia Firefly asserragliata nella fattoria e detestiamo i poliziotti capitanati dall’invasato sceriffo Wydell (un William Forsythe fenomenale), successivamente prendiamo le distanze anche da Otis e Baby (Bill Moseley e Sheri Moon, entrambi inopinatamente 'in parte'), fino a riconoscere la sostanziale interscambiabilità dei ruoli di vittime e carnefici (sottolineata anche dalla ripetizione della medesima battuta, in situazioni simili, da parte dello sceriffo e di Otis: “Ho soltanto cominciato!”). Ma il gioco degli specchi si fa ancora più complicato: una volta raggiunta la parità morale tra inseguitori e inseguiti (gli uni e gli altri ugualmente ammirabili/detestabili), sono le istanze narrative a determinare per chi parteggerà lo spettatore. Con magnifica imprevedibilità, Rob Zombie spariglia di continuo le carte in tavola: prima ci inchioda alla brutalità della vendetta personale, poi ci soccorre con un intervento gratuitamente liberatorio e infine, in una sequenza semplicemente maestrale, ci lancia in una corsa forsennata contro la legge. E il tutto è gestito con maturità stilistica davvero notevole: ralenti alla Peckinpah, montaggio iperframmentato (ma non caotico come ne La casa dei 1000 corpi), scelte musicali azzeccatissime (Blind Willie Johnson, The Allman Brothers Band, Otis Rush): ogni soluzione risulta perfettamente integrata in un’opera digrignante e disperata, al contempo attacco frontale alle istituzioni e canto del cigno di un’utopia radicalmente eversiva. Detto chiaramente, questo magnifico The Devil’s Rejects è il controtipo negativo dell’altrettanto magnifico Le tre sepolture: se nel film di Tommy Lee Jones l’America dei padri puniva ed educava i figli irresponsabili, qui padri e figli, alleati, rifiutano la morale dell’autorità, crivellandola di colpi e scagliandocisi contro con furibonda irruenza suicida, come in un romanzo del più sanguigno Cormac McCarthy. Attenzione, le due sequenze più dannatamente esaltanti del cinema americano degli ultimi dieci anni sono in questo film: l’omicidio iniziale di Abbie sulle note di Midnight Rider della Allman Brothers Band e il tiratissimo finale sull’incalzante, irresistibile accelerazione ritmica di Free Bird dei Lynyrd Skynyrd

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