venerdì 20 maggio 2011

Romano perché corre...


Attivo sulla scena letteraria nazionale da più di un decennio, Livio Romano torna - dopo le avventure in Einaudi, Sironi e Marsilio - con un romanzo pubblicato per un piccolo editore di qualità: Fernandel. Il mare perché corre, questo il suggestivo titolo preso a prestito dall’incipit di una poesia di Piero Bigongiari, è un romanzo decisamente on the road, incentrato su una vicenda dai risvolti neri che non si perita di agganciarsi alla Grande Storia, ma che in tutto e per tutto resta legatissima a quelle coordinate che hanno fatto della prosa di Romano un unicum nel panorama nostrano. Quarantott’ore, contate da notte a notte, per due giornate sono il tempo di un viaggio in auto, forse una fuga, dal Salento al Nord, Legnago. Alla guida, Piero, quarantasei anni e il disincanto di una vita rassegnata. A Brindisi, quasi per caso, costui raccoglie a bordo un vecchio ottantenne: si chiama anche lui Piero. I due Pieri sono lanciati alla ricerca di un amore perduto. Helena, giovane oculista bosniaca in odore di terrorismo, e Nela, un’ebrea sefardita che, sfuggita ai campi di sterminio nazisti, aveva trovato rifugio a Santa Maria al Bagno prima di scomparire verso Gerusalemme. Abbiamo scambiato due chiacchiere con l'autore:

1) Anzitutto due parole sul tuo percorso. Hai sperimentato diverse realtà editoriali portando avanti un tuo personale progetto di scrittura: quanto paga oggi, nell'odierno panorama letterario, decidere di mantenere una propria voce originale senza piegarsi alle leggi di mercato?
Ba’ francamente non ho mai creduto a questa storia delle “leggi di mercato”. Quello dei libri, almeno in Italia, è un mercato che segue logiche e dinamiche assolutamente separate dalle leggi della microeconomia. Semmai ci son delle «mode». Il periodo in cui vanno i precari, quello in cui si sfornano docu-fiction, o noir, o, nel passato meno recente, cannibalismi e splatter. E non è assolutamente detto che uno fa un libro à la page e glielo pubblicano e diventa ipso facto un successo. Detto questo, a me non interessano lontanamente le voghe letterarie. Io ho una storia da raccontare, e 9 volte su 10 è una storia che va nel senso opposto rispetto ai pruriti passeggeri dei grandi editor - ché di questo si tratta, in sostanza: dei gusti del momento di questo o quel potente direttore editoriale. Sai una cosa Omar? Ho imparato a seguire il mio istinto. Noi viviamo per scelta in provincia, lontani dai salotti che contano, dai party, dalle chiacchiere che producono buoni contatti. Per due o tre anni ho provato a mantenere un rapporto civile con le major. Prendevo aerei e andavo a pranzo con questo e quello. Grandi apprezzamenti, stima, curiosità esotica, anche, per il terrone venuto dal profondo Sud. Ma poi: batoste, rimpalli, distinguo, tempi biblici di risposta. Un grande - quanto umanamente imperscrutabile - editor mi ha detto una volta: «Fai altro, lascia stare questa storia». E io: «Ma sei hai appena detto che è la cosa migliore abbia fatto». «La pubblicherai fra 10 anni». No, io non son così. Vengo dal giornalismo. Sono abituato ad avere un pubblico a stretto giro di scrittura. Sapevo che non avrei più scritto finché Il mare perché corre non avesse visto la luce. Ho trovato un editore piccolo e curioso, coltissimo e stimato. Mi ha detto «Lo faccio». Gli ho risposto: «Bene, quanto prima possibile». Poi, se vogliamo tediare il lettore con questo circo Barnum che è l’editoria italiana, sia io che te sappiamo che cambiare editore di continuo è malvisto nelle major. Che questo girovagare è costato al grandissimo Cosimo Argentina, per esempio, la possibilità di uscire con Mondadori e altri. Ma cosa ha perso Cosimo? Assolutamente niente, rispondo io. Maschio adulto solitario è e resterà per sempre uno dei libri migliori degli ultimi 10 anni, alla faccia di tanta spazzatura sfornata dai Grossi, spesso seguendo logiche di Do ut des, io ti pubblico questo, tu mi compri i diritti cinematografici di quello, egli dà una rubrica sul magazine a quell’altro.

Ecco, io son lontano proprio geograficamente da questi traffici. Onestamente credo che vivessi a Roma ci sarei dentro fino al collo. Mi conosco. Conosco la mia propensione al compromesso. La mia penna è in vendita. È l’unica cosa che so fare, e ho tre figlie. Però ho deciso 12 anni fa di tornare al Sud. Tanto vale coltivare caparbiamente quest’autonomia masochistica. Fare, insomma, quel che mi pare. Non sarà qualche migliaio di copie o qualche passaggio TV in più o in meno - come pateticamente chiedono i cosiddetti TQ - a far di me un narratore migliore. La mia scrittura è migliorata soltanto da due elementi: la Vita, quella vera, quella fra la gente qualsiasi. E le letture, i classici, i Grandi, tutti ancora da esplorare.

2) Il mare perché corre, titolo fantastico per un romanzo che è in tutto e per tutto 'romaniano' ma allo stesso tempo aggiunge una nuova prospettiva, più contemplativa forse, alla tua poetica. Stai deliberatamente rinunciando alla tua proverbiale ironia in funzione di un maggiore scandaglio esistenziale oppure, più semplicemente, oggi puoi con maggiore disinvoltura rispetto agli esordi permetterti di calibrare i registri a seconda della bisogna?
Sì, per quanto mi sia sforzato di rendere l’atmosfera rallentata, rarefatta, notturna, aurorale, e la lingua asciutta ed essenziale, hai ragione: resta sempre il mio stile. L’ho scoperto rileggendo il romanzo di recente (cosa che non faccio mai). Mi son messo là e ho fatto finta di essere un lettore estero. Be’, il ritmo è quello, alla fine. E perfino lo sguardo di questo narratore in terza persona, per quanto si sforzi di essere imparziale, ha scarti di ironia sottilissima che ricalcano la mia cifra consueta. Avevo bisogno di liberarmi della prima singolare di Niente da ridere. Della mistificazione narrazione-autobiografia, dell’alter-ego Gregorio Parigino. Volevo metter dentro la storia di Israele che da sempre mi affascina, e la storia delle BR, altra mia grande ossessione fin da quando avevo 15 anni. Volevo mettere in scena un uomo lontanissimo dal mio modo di essere, e un suo speculare che è forse la proiezione del me stesso che aspiro a essere a 80 anni - per quanto io son della generazione post-punk del no future, della “Vita spericolata” e via dicendo e mi è estremamente difficile immaginare di campare anche solo cinque anni ancora.

Ad ogni buon modo, quel che progetto per il futuro è un ritorno al grottesco, al pastiche linguistico, alla grande storia corale allegorica. Si sa, lo diceva anche Tondelli: all’inizio i narratori son molto concentrati a inventare una propria voce, a calibrare il timbro, lo stile. Poi arriva il momento di imparare a fare dei plot avvincenti, a utilizzare gli eterni trucchetti della drammaturgia e della narratologia. Ecco, con questo romanzo che già molti definiscono “perfettamente congegnato”, e dopo Niente da ridere, parimenti lavoratissimo quanto a intreccio: credo di aver imparato la lezione. Posso adesso coniugare ricerca linguistica e densità del plot. Poi, per ritornare a quel che dicevamo prima, se le major avranno il coraggio di investirci, ben per loro. Senò resto nel circuito indie.

3) Più di un decennio fa tu e un manipolo di autori nostrani avete con le vostre opere spalancato le porte ad una nuova genia di scrittori meridionali. Oggi come ti senti di valutare il fenomeno? Ti sembra che una certa oleografia del sud - anche in chiave negativa, Gomorra docet - abbia finito per avere la meglio sulla sincera spinta di rappresentazione che a fine degli anni '90 sembrava motivare il vostro lavoro?
Sarò davvero franco. In quegli anni, con Sporco al sole e Disertori, i “giovani” narratori meridionali avevano tentato un attacco alla Torre con una lingua fresca, con temi nuovi che programmaticamente facevano a polpette quella che Trecca chiamava «la poetica dello sciallino verde» o «la monocultura del dolore». Oggi vedo una specie di reazione. Vedo che quel che tira davvero non son certo i fuochi d’artificio linguistici di Dezio o la lingua screziata e ricercatissima di Evelina Santangelo, o anche gli esperimenti carveriani del primo De Silva. Hai ragione: ha vinto la rappresentazione stereotipata del Sud di sempre, fatto di megere, violenza, sopraffazione, magia, pistolettate. Non posso generalizzare poiché poi ognuno ha i suoi miti e i sui percorsi ed è estremamente difficile raggruppare gli autori, ormai tanti, in filoni predeterminati. Ho già detto di Argentina, che amo molto. Ma trovo estremamente interessanti anche Carlo D’Amicis, Omar Di Monopoli, Nicola Lagioia, Andrea Piva. In tutto questo, lo scrittore più “giovane”, innovativo, geniale, dissacratore, raffinato e insieme dotato di una vena totalmente pop: resta il più anziano di tutti, Gaetano Cappelli.

6 commenti:

Annalisa ha detto...

Ecco, ora mi sento colpevole: non conosco affatto. Rimedierò (ma meglio che apra una lista desideri, ché qui diventa dura starti dietro :-P)

sartoris ha detto...

Annalisa cara, Romano ha un suo perché, da queste parti ha un bel popolo di affezionati (ma questo non glielo facciamo sapere, ché Livio a sentirsi amato in quanto salentino non ci sta, e c'ha ragione!!!!:-)

Unknown ha detto...

A me sembra che Livio sia orgoglioso delle sue origini salentine, e del resto lo dimostra la scelta che ha fatto; piuttosto,non vuole essere inquadrato in un cliché e mi par ovvio,vista la sua scrittura di così ampio respiro..

sartoris ha detto...

@Giada, ma certo, lo penso anch'io, ci mancherebbe... conosco Livio da anni e so quanto sia salentino e pugliese nel profondo (anch'io mi sento così, orgogliosamente così), volevo infatti rimarcare il fatto che spesso dando il connotato di "scrittura meridionale" si finisce per semplificare e talvolta sminuire il lavoro di un autore, ma è un errore in cui io stesso incappo (sia quando mi riferisco ai miei colleghi, sia quando gli altri parlano di me). Insomma: forza Livio!!! :-))

Rocco Longo ha detto...

Mi arrivano addosso certe botte ed ecco che riprendo contezza della mia incolmabile ignoranza. Livio ha due anni più di me! Ussignùr!
Ed io coltivo, sin da sempre, il sogno di scrivere un libro.
Detto questo...rivendicare, con eleganza di stile e senza clamore, un'autonomia di scrittura e, prim'ancora, di pensiero mi pare -oggi- una virtù ben più che rara. Soprattutto nel mondo letterario. Ed è proprio nel mondo delle Litterae, sovente imbarbarito da un'inciviltà di ritorno figlia della società nella quale viviamo, che questa bellezza riesce ad essere ancora più pregnante.
La vividezza scritturale, unita ad un lessico sempre molto ben soppesato e mai ostentato, fa di Livio qualcosa di molto più importante che non uno scrittore di provincia. E, rassegnamoci pure, la Provincia è nicchia. Ed io son contento così. Le schifezze lasciamole pure alle masse indistinte. Grande Livio!

sartoris ha detto...

@Rocco: grazie dell'intervento. La Provincia è nicchia, sono d'accordo, ma quando si parla di letteratura il concetto di nicchia in questo ca... di paese assume connotazioni assai ampie, per cui, non so, l'importante è dare bene ascolto alla propria voce (almeno questo è ciò che ho imparato) e Livio questo lo fa da anni, senza infingimenti :-)